Sono
sempre rimasto interdetto da una ricerca che non ha mai prodotto reali
risultati, una ricerca che è sempre caduta nel vuoto ogni volta che mi
accingevo ad approfondirla. Non sono mai riuscito ad avere una cognizione
chiara di uno dei pregiudizi più grandi e resistenti dell’occidente, quello
dell’antisemitismo. A parte frasi deliranti di alcuni padri apologisti come
Gregorio di Nissa, Girolamo e Giovanni Grisostomo, neanche motivate ma solo
espresse di getto senza un’argomentazione valida, l’antisemitismo non ha
acquistato senso. Allora sono tornato indietro, alla lettera ai Romani di San
Paolo che viene considerata una sottospecie di documento antisemita; la cosa è
già abbastanza sospetta, visto che lo stesso Paolo era un ebreo – della tribù
di Beniamino – e nella stessa lettera, al capitolo XI, non solo lo dichiara ma
ne è ovviamente fiero e indica il popolo ebraico come la radice profonda e
incancellabile della cristianità. A questo punto salto in avanti, leggo – anche
con un certo impegno e non senza difficoltà -, i monumentali commentari alla
lettera ai Romani di Lutero – altro caso di propaganda perniciosa, perché è
ancora ritenuto un pretucolo agostiniano ignorante secondo i dettami ben
pubblicizzati dalla Controriforma quando invece con Erasmo rappresenta la mente
teologica più brillante del XVI secolo
–, il testo di Barth ma niente. San Paolo non poteva essere antisemita.
E la lettura che vede la riforma protestante come profondamente antisemita più
che a Lutero va ascritta al cappellano di corte di Guglielmo II, Adolf
Stoecker. Quindi l’empasse sulle origini dell’antisemitismo è piuttosto
imbarazzante per noi occidentali; se consideriamo che persino la mitologia ha
una spiegazione e una radice nonostante “queste
cose non avvennero mai, ma sono sempre” come scrive Sallustio, scoprire che
uno dei pregiudizi più nefandi della nostra storia si perde in sé stesso in
modo fumoso e “sine ratio” ha un ché di indecente se abbiamo un minimo di senso
storico per ricordare cosa ha prodotto sin da alcuni articoli del IV Concilio
Lateranense del 1213, come la bolla Hebraeorum Gens o la Diaspora Spagnola
del 1492 nella quale vennero cacciati non solo gli ebrei ma anche i cosiddetti
“Marranos”, ebrei convertiti al cristianesimo –
infatti temo chi usa il termine marrano senza conoscerne il significato.
C’è
sicuramente un passaggio chiave che rende l’antisemitismo un sentimento ancor
più alla portata delle masse… ed è l’avvento della borghesia nel tardo
Ottocento, coadiuvata da una pessima diffusione del sentimento romantico – di
cui ancora oggi paghiamo la banalizzazione - e di alcuni tardi esponenti
autorevoli del movimento, come Wagner, Eliot, socialisti utopici come Fourier,
e anarchici come Proudhon e Bakunin.
Dopo
il periodo felice della Rivoluzione Francese e quello delle campagne
napoleoniche in Europa - dove tutti i Ghetti vennero aperti e ai cittadini
ebrei furono concessi eguali diritti innanzi alla legge -, l’antisemitismo
divenne una sorta di moda inquietante che attraversò anche menti eccellenti e
notevoli. La Borghesia ,
questa nuova padrona dell’economia e della società moderna non avendo retaggio
e sangue di stirpe da esibire non poteva non rifarsi su un sangue da sempre
ritenuto sporco, reo di “deicidio” e usuraio: il capro espiatorio era già bello
e pronto insomma, costruito e voluto per due millenni. E il fatto che buona
parte dell’economia europea fosse in mano ad ebrei rappresentava un
bell’incentivo.
Se
ancora oggi vogliamo individuare un borghese vecchio stampo ma duro a morire,
anche tra le fila di sedicenti progressisti, basta aprire la discussione
semita, quando si dichiarerà quantomeno
preoccupato dalla questione ebraica è individuato; e ogniqualvolta gli si
chiederà il perché avremo la stessa risposta: “non so il perché ma è così!”, se
è onesto… altrimenti si appellerà ad uno dei più evidenti falsi storici mai
realizzati: i cosiddetti “Protocolli dei Savi di Sion” una
serie di documenti, anche grotteschi, redatti dall’Okhrana zarista agli inizi
del novecento per diffondere la voce di una cospirazione mondiale degli ebrei
per conquistare il mondo. Questi documenti hanno avuto una eco tanto indegna
quanto efficace e diffusa nell’ignoranza generale sino ad essere utilizzati per
dare una surrettizia e improbabile radice sionista alla rivoluzione russa e
infine per motivare storicamente gli albori e lo svilupparsi della propaganda
antisemita prima del nazismo e poi del fascismo.
Ma
il grottesco in questo caso è stata l’ispirazione di una delle pagine più
oscure e tragiche della storia dell’umano: il primo genocidio su scala
industriale realizzatosi proprio nel cuore della civilissima Europa la cui
responsabilità non va semplicemente circoscritta in un determinato paese, in un
determinato periodo storico e su una determinata popolazione o gruppo di
persone. Essa ricade sulla natura e sulle coscienza dell’uomo nella loro
interezza, non come una maledizione o come una semplice macchia, bensì come un
apice oscuro ottenuto, una vetta senza vita toccata e raggiunta, definita, conosciuta
ed ora incancellabile.
La
memoria non è un semplice ricordo, una celebrazione a testa china e contrita di
un evento, ma l’assoluta consapevolezza di ciò che è riuscita a raggiungere e
realizzare la natura umana quando svuota di significato e consistenza la carne
dei suoi simili. Non un accadimento storico dunque, una semplice pagina
racchiusa nei libri di storia, ma un qualcosa che scorre con noi travalicando
ogni cronologia, che mostra in tutta la sua cruda essenza ciò di cui siamo
stati capaci e potremmo tornare a realizzare, e così sopravvive, persiste e
persisterà in ogni generazione e in ogni singola vita questa ferita viva e
sempre sanguinante che accompagnerà la storia dell’uomo sino alla sua fine.
Hannah
Arendt ci ricorda che coloro che si impegnarono con dovizia, metodo e
precisione alla Soluzione Finale non erano dei folli o degli esaltati, ma
figure consapevoli, paurosamente “normali”, con un affettività normale, con dei
sentimenti comuni, con famiglie e figli, con una sola gelida e fredda consapevolezza:
fare il proprio lavoro! Non farsi domande né chiedersi se ciò che adempivano
con burocratica precisione era bello o brutto, giusto o sbagliato: “nessuna domanda, alcuna coscienza” solo
realizzare il compito, e per assolvere con maggior serenità a questo lavoro si utilizzano
termini freddi, burocratici, informali, parole che mai dovevano lasciare ad
intendere ciò che avveniva, ma solo statistiche, numeri, comunicati brevi e
scarni: anche la più stopposa retorica si riformulò in raggelante telegrafia.
Il
ragioniere del Reich, Eichmann fu per la pensatrice l’emblema di questa
inquietante ed efficace banalità: i medici, gli psichiatri che lo tennero sotto
controllo durante il processo a Gerusalemme affermarono che era una persona
“normale”, un dottore addirittura dichiarò: “è più normale lui di quando lo sia io adesso dopo averlo
visitato”.
Durante
il convegno di Wannsee del 20 gennaio
1942, dove furono decisi i modi e i tempi della Endlösung der Judenfrage (la
soluzione finale della questione ebraica), l’ufficiale Adolf Eichmann non solo era presente ma fu il
compilatore a macchina del documento, di cui è rimasta una sola copia. Dopo aver trascritto i nomi, i ruoli e responsabilità
dei presenti (in tutto 15), in sedici
pagine fu deciso lo sterminio sistematico degli ebrei rimasti nei paesi europei,
compresi quelli ancora da conquistare, come il Regno Unito e l’Unione Sovietica.
Il ragioniere Eichmann con grande zelo mise in una colonna i vari paesi, in un’altra
accanto il numero di ebrei che li abitavano e alla fine furono tirate le somme:
in totale undici milioni di esseri umani trattati come un rendiconto, una cifra
da estinguere e trattare. Tra questi erano contemplati anche i cosiddetti “Mischlinge”,
persone nate da matrimoni misti di ebrei
e non ebrei, efficacemente distinti per gradi di appartenenza, e più loro erano
vicini all’”impurità” e più la loro sorte era segnata.
Durante
il processo che lo vide imputato, Eichmann non negò nulla, non si preoccupò di
giustificare il suo operato né si notarono tracce di pentimento: lui dichiarò
semplicemente che faceva il suo lavoro, adempiva al suo compito come gli era
stato ordinato. La Arendt
scrive: “Eichmann ebbe dunque molte
occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato che con il passare dei mesi e degli
anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova
regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio
alla legge.”
Il
contabile del Reich era parte di un progetto, un piccolo burocrate efficace
investito di un ruolo, e, come tutti gli altri, lavorava per attuarlo al
meglio. Quindi nessun pentimento o presa di coscienza, questi fattori erano
semplicemente inutili per la realizzazione dello scopo: "Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini” – scrive la Arendt – “che si erano trasformati in assassini, era
semplicemente l’idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella
storia del mondo (“un compito grande, che si presenta una volta ogni duemila
anni”) e perciò gravoso. Questo era molto importante perché essi non erano
sadici o assassini per natura; anzi, i nazisti si sforzarono sempre,
sistematicamente, di mettere in disparte tutti coloro che provavano un
godimento fisico nell’uccidere. (…). Perciò il problema era quello di soffocare
non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli
altri. Il trucco usato da Himmler ( che a quanto pare era lui stesso vittima di
queste reazioni istintive) era molto semplice e molto efficace: consisteva nel
deviare questi istinti , per così dire, verso l’io. E così, invece di pensare:
che cose orribili faccio al prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili
cose devo vedere nell’adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava
sulle mie spalle!"
Arrivati
a questo punto la ragione perde ogni autorità: cade ogni ricerca di verità, di
una motivazione profonda, storica, oggettiva di tutto questo. In questa tragica
e banalissima dinamica si ripercuote e risuona la stessa risposta del borghese
di vecchio stampo ancora armato da quell’ incosciente ma sotterraneo
antisemitismo che ho ricordato prima: “ la questione ebraica è preoccupante, non
so il perché, ma è così!” Una risposta superficiale, pregiudizievole
senza radici alcune, ma sempre latente e strisciante… per nulla convincente ma
radicata sulla pelle di ciò che è male solo perché non ha la benché minima
sostanza: “Quel che ora penso veramente è
che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né
profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo
intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso 'sfida' come ho
detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di
andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non
trova nulla. Questa è la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può essere
radicale.“Hannah Arendt la banalità del male: Eichmann a Gerusalemme”
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