L’undici settembre del
1943, dopo appena un giorno dall’occupazione nazista di Roma, il comandante in
capo dello Sicherheitsdienst, il
colonnello delle S.S. Herbert Kappler
ricevette un breve e perentorio comunicato dal Ministro degli Interni nazista e
capo delle SS Heinrich Himmler nel quale si leggeva: “i
recenti avvenimenti italiani impongono
un’immediata soluzione del problema ebraico nei territori recentemente occupati
dalle forze armate del Reich”. Il
messaggio, per quanto edulcorato e formale era chiaro: Kappler doveva attivare
le forze occupanti per procedere prima
al rastrellamento e poi alla deportazione degli ebrei della capitale. L’operazione
richiedeva tempo e risorse, il Ghetto di Roma, tra rione Sant’Angelo e il
Portico d’Ottavia, era aperto dai tempi di Pio IX e, per quanto concentrati tradizionalmente
in quella zona gli ebrei erano liberi di risiedere ovunque nella capitale, non
era dunque una cosa facile: bisognava accedere agli archivi anagrafici della
comunità e gli elenchi dei nominativi degli ebrei forniti dall'Ufficio
Demografia e Razza del Ministero dell'Interno non erano del tutto affidabili. Kappler
stava impiegando troppo tempo e Himmler spazientito inviò il giorno 24
settembre un secondo messaggio, stavolta segreto e molto più esplicito: “tutti gli ebrei, senza distinzione di
nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed
ivi “liquidati”. Il successo
dell’impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa”. A quel
punto il Colonnello Kappler accelerò i tempi e due giorni dopo – il 26
settembre - convocò il Rabbino capo Ugo Foà e il Presidente della comunità
ebraica Dante Almansi nel suo ufficio di Villa Wolkonsky e
impose loro un ultimatum: “Non abbiamo
bisogno delle vostre vite, né di quelle dei vostri figli, abbiamo bisogno
invece del vostro oro. Entro trentasei ore voi dovete versare cinquanta
chilogrammi di oro altrimenti duecento ebrei saranno presi e deportati in
Germania”. I duecento ebrei corrispondevano ai “capi famiglia” della
comunità, con quella minaccia Kappler attentò alla radice della tradizione, a ciò che c’era di più vitale nell’identità e nell’essenza della collettività
israelita romana. Il mattino del 27
settembre nella Sinagoga Maggiore iniziò la raccolta dell’oro, persino la curia
di Roma si offrì segretamente di contribuire ma la comunità non accettò.
Martedì 28 settembre, alle sei del pomeriggio, Foà ed Almansi accompagnati da
altri rappresentanti della comunità si recarono a Villa Wolkonsky con l’oro
raccolto. I nazisti per sicurezza lo pesarono due volte, risultarono 50,3
chilogrammi (furono aggiunti 300 grammi per evitare contestazioni o ulteriori
disquisizioni sul peso), la comunità era salva! Avevano pagato la loro libertà,
tutti a quel punto credevano di essere al sicuro, anche perché molti ritenevano
inverosimile che a Roma potesse realizzarsi quello che stava accadendo nel
resto d’Europa. L’oro fu spedito immediatamente in una cassa al generale Ernst Kaltenbrunner
accompagnata da un messaggio in cui si spiegava a Berlino che
l’opera di deportazione che sarebbe dovuta seguire era complessa e di difficile
attuazione: la comunità era vasta, diffusa e radicata nella città, contava
all’incirca 12.000 persone e quindi si suggeriva come alternativa “l’utilizzo”
degli ebrei romani come mano d’opera per lavori obbligatori in loco. La
risposta di Kaltenbrunner fu indignata e non lasciava scampo: l’“estirpazione” – così si legge - degli
ebrei italiani era necessaria per la stabilità e la sicurezza dell’occupazione
nazista nella capitale e di tutti i territori occupati. Non si accettavano
eccezioni, si doveva procedere!
Giovedì 14 ottobre
militari nazisti irruppero nel Tempio, sul lungotevere Cenci, e saccheggiarono
le biblioteche del Collegio dell’ordine Rabbinico e della Comunità Ebraica -
fino ad allora tra le più ricche di opere e documenti d’Europa - riuscendo così
a trovare anche gli elenchi con i nomi e gli indirizzi di tutti ebrei romani.
La sera stessa, un soddisfatto Kappler inviò una missiva al comandante del
campo di concentramento di Auschwitz Rudolf Hoess, nella quale lo esortava a
tenersi pronto, perché intorno al 20 di ottobre avrebbe ricevuto un “carico” di
Ebrei dall’Italia.
Tutto era pronto dunque,
si poteva dare inizio alla deportazione degli ebrei romani: avevano i nomi e i
domicili di tutti, anche grazie anche all’aiuto dei “solerti” commissari di pubblica
sicurezza Gennaro Cappa e Raffaele Aniello. Mancava solo il fattore “sorpresa” suggerito
dal comandante in capo del SS Himmler.
Da lì a due giorni sarebbe
stato sabato e Kappler e i suoi non si lasciarono sfuggire l’occasione;
avrebbero approfittato del giorno di riposo per cogliere tutti di sorpresa e
iniziare i rastrellamenti proprio dal Ghetto del Portico d’Ottavia.
Alle cinque del mattino
del 16 ottobre 1943, 360 uomini di un reparto speciale delle SS comandati dal
capitano Donneker, più una ventina di uomini della questura con elenchi dei
nomi alla mano, dopo aver chiuso con blocchi armati tutte le possibili vie di fuga dal Ghetto e dalle strade
limitrofe, iniziarono a bussare con violenza alle porte delle abitazioni, e
urlando in tedesco intimavano a intere famiglie colte nel sonno di aprire, se
nessuno rispondeva venivano sfondate le porte.
L’operazione doveva essere veloce e precisa, chirurgica! Nessuno doveva
sfuggire, tutti i nomi segnati su quegli elenchi dovevano essere spuntati. Non
fu sparato un colpo, ricordò nel suo verbale un compiaciuto Kappler, anche se
sottolineò che alcuni romani tentarono di ostacolare il rastrellamento, di
fermare i poliziotti e nascondere degli ebrei – in alcuni casi con successo.
Alla due del pomeriggio di quel sabato furono ammassate nei pressi del Teatro
Marcello 1259 persone tra uomini, donne, bambini, anziani e malati. La maggior
parte avevano ancori i vestiti per la notte, tra loro anche una donna incinta,
Marcella Perugia, che partorirà il giorno dopo nella Caserma del Collegio
Militare di Palazzo Salviati dove tutti i rastrellati furono trattenuti per
trenta ore prima di essere deportati. Dopo varie verifiche 237 prigionieri
furono rilasciati in quanto non ebrei o di cittadinanza straniera. Solo una
donna cattolica continuò a dichiarasi ebrea per non abbandonare un neonato
rimasto orfano. Rimasero 1023 persone a cui si aggiunse un’altra donna:
Costanza Calò, che sfuggita alla retata decise in seguito di consegnarsi
spontaneamente ai nazisti per riunirsi alla sua famiglia.
Lunedì 18 ottobre, alle
due del pomeriggio, dalla stazione Tiburtina partì per il campo di sterminio di
Auschwitz un treno con 1024 persone stipate in 18 “carri bestiame”. Il convoglio
arriverà a destinazione il 22 ottobre, ma i deportati furono fatti scendere dai
vagoni sprangati solo alle tre del mattino del giorno successivo. Molti, i più
deboli e bisognosi di cure, non riuscirono a reggere alle condizioni proibitive
e disumane del viaggio e morirono lungo il tragitto; 820 persone, soprattutto
bambini, anziani e malati, furono immediatamente giudicati inabili al lavoro e
sterminati nelle camere a gas. Soltanto 154 uomini e 47 donne furono considerati sani e in grado di
lavorare. Alla fine della guerra faranno ritorno a Roma solo 16 persone,
quindici uomini e una donna, Settimia Spizzichino, trasferita nel 1945 dal campo
di Auschwitz-Birkenau, dove fu usata come “cavia
umana”, al campo di Bergen Belsen e in seguito liberata. Settimia
Spizzichino perse ad Auschwitz la madre, due sorelle e una nipote, leggiamo
sulla quarta di copertina del suo libro “Gli anni rubati”:
“[..]Dimenticare. Ma io
no. Io della mia vita voglio ricordare tutto, anche quella terribile esperienza
che si chiama Auschwitz: due anni in Polonia (e in Germania), due inverni, e in
Polonia l’inverno è inverno sul serio, è un assassino.., anche se non è stato
il freddo la cosa peggiore. Tutto questo è parte della mia vita e soprattutto è
parte della vita di tanti altri che dai Lager non sono usciti. E a queste
persone io devo il ricordo: devo ricordare per raccontare anche la loro storia.
L’ho giurato quando sono tornata a casa; e questo mio proposito si è rafforzato
in tutti questi anni, specialmente ogni volta che qualcuno osa dire che tutto
ciò non è mai accaduto, che non è vero.”
Settimia Spizzichino,
morirà a Roma il 3 luglio del 2000, all’età di 79 anni.
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