Nel
suo “Codice della vita italiana” Prezzolini scriveva: “I cittadini italiani si
dividono in due categorie: i furbi e i fessi.” E’ molto facile dedurre che questa
considerazione è uno dei collanti nazionali, una delle poche caratteristiche
che ci unisce, anche grazie alla continua e centrifuga relazione dei due soggetti,
perché i fessi ambiscono alla furbizia mentre i furbi sono capaci di qualunque
cosa pur di non passare per fessi.
E’
in questo meccanismo d’unità nazionale
che si inserisce la longeva e controversa figura di Giulio Andreotti.
Da
anni il giudizio comune sul politico scomparso tre giorni fa è stato sempre lo
stesso, e ce lo siamo sentiti dire in tutte le salse: “sicuramente non ha la
coscienza pulita ma di certo è uno sa tutto e che sa il fatto suo.” Potevi
parlare con uno di destra o di sinistra, al bar, nella sede di un partito o in
palestra, ma ogni volta che si toccava l’argomento Andreotti questa era la
risposta. Insomma i fessi ammiravano e rispettavano la “cosiddetta” furbizia,
ben incarnata e sintetizzata in una figura politica rivestita – secondo l’opinione
comune - da un’aura composta in parti uguali da machiavellismo di provincia e mistero
di convenienza . Persino l’efficace ed iper-realista film di Sorrentino indirettamente
celebra e affresca questa visione oscura che col sedimentarsi del tempo ha
assunto aspetti grotteschi da “maledizione del faraone” o da “segreti delle
piramidi”. Inutile dire quanto questa opinione – una volta diffusa e
consolidata negli anni - possa fare il
gioco dei furbi e dei potenti.
Quanto
amiamo i furbi, in fondo li ammiriamo, e ne siamo anche invidiosi. Il potere è
sempre affascinante e con un pizzico di mistero e una spolverata di segreti di
stato diventa intoccabile, ci si rassegna a tenerselo, a subirlo come inevitabile,
sembra l’unica alternativa quasi per “Ragion di Stato”.
Ecco
la vera arma di quel periodo: “La Ragion di Stato”! Il grande alibi, la
risposta a tutti i misteri, a tutte le domande. La Ragion di Stato è stato il
grande tendone che ricopriva dalle intemperie il tragico circo di quegli anni.
In nome della ragion di stato si sono coperte stragi, progettati golpe pronti a
scattare nel caso in cui la recita della democrazia repubblicana perdesse
colpi. In nome della ragion di stato venivano eliminate o messe a tacere voci
fuori dal coro, strumentalizzati e veicolati movimenti criminali e sovversivi,
si facevano patti elettorali e non con “cosa
nostra” – anche se la mafia per lo stato non esisteva -, in nome della ragion
di stato la democrazia era una maschera, la repubblica una farsa, e la Dc un
muro pseudo ideologico che ci divideva dall’est e che è inevitabilmente
crollato dopo il 1989 quando non serviva più. Di misteri non ce ne sono, i misteri non
esistono, tutto è chiaro, lo è sempre stato. Ciò che veramente fa rabbia non
sono i misteri, questa è propaganda per distrarre che ancora funziona, ma sono
le morti che non hanno avuto giustizia: i cadaveri galleggianti di Ustica,
persone morte perché aspettavano un treno o ascoltavano un comizio in piazza, la
cancellazione di una nuova opportunità di cambiamento e riforme del Paese con
il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, i favoreggiamenti diretti ed
indiretti a logge massoniche implicate con la finanza inquinata, con la
criminalità organizzata, l’aver paralizzato il processo di emancipazione e
liberazione della vita politica dalle mafie con le stragi di Capaci e Via d’Amelio. Questo
davvero fa rabbia.
Ora
una domanda resta, una domanda la cui risposta è nella vita politica contemporanea.
Quale eredità abbiamo ricevuto grazie al grande alibi della “Ragion di Stato?”
Difficile parlare di eredità quando si è rimasti orfani, quando in nome della “ragion
di stato” tutti i grandi promotori del cambiamento sono scomparsi: abbiamo
delle statue, delle targhe, l’Italia è un cimitero degli ideali e del
cambiamento. Un Verano delle belle intenzioni. Dov’è Moro e la sua scorta?
Falcone, Francesca Morvillo, Borsellino e le loro scorte? Dove sono Pecorelli,
Impastato, Walter Tobagi e Pino Puglisi? Dove sono Luigi Calabresi, Ambrosoli e
il generale Dalla Chiesa? Sono rimasti i furbi, evidentemente ce li meritiamo,
campano anche Tanto.
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