Ad
un giorno dai risultati delle elezioni, in un’intervista rilasciata ad
Alessandro Ferrucci del Fatto quotidiano, il filosofo Massimo Cacciari – una dei
pensatori più influenti del paese, anche perché Agamben parla meno – definisce l’entourage
di Bersani un insieme di “teste di cazzo”; l’affermazione – per quanto
condivisibile - viene però messa in crisi dallo stesso professore quando alla
fine dichiara che “non bisogna perdere la testa”. Addentrarsi nel territorio del principio di
non contraddizione sarebbe tanto impervio quanto poco utile, quindi preferirei
partire dalle riflessioni di Cacciari per avere, almeno personalmente, un
quadro decente. Il PD non sa vincere le elezioni e la cosa non è una novità; lo
stesso filosofo è nel partito da un bel po’ di tempo e conosce perfettamente
questa dinamica, quindi il suo rabbioso stupore somiglia più che altro all’affanno
dell’Achille zenoniano che cerca di recuperare i passi in più di vantaggio
della tartaruga… un annaspare poco produttivo almeno sulla base della logica. Persino
la sua sfuriata dunque non risolve nulla anche perché, nonostante l’autorevolezza,
viene dall’interno del partito, e meglio di me Cacciari sa che anche fuori dalle
mura di Creta Epimenide resta cretese.
Nel
mezzo di questi due estremi – l’incazzatura e l’invito alla calma – ci sono una
serie di accuse dirette alla dirigenza del PD, ovviamente tutte vere: l’assoluta
distanza dall’elettorato (ammesso che così lo si possa definire), le lotte
interne, l’incapacità di realizzare un cambiamento reale, anche se sarebbe più
opportuno definirla mancanza di coraggio - mantenere i numeri sicuri senza
azzardarsi a cercare nuovo consenso con scelte forti e dichiarate è tipico di
un pensiero conservatore e non certo di quello progressista. Più notevole delle
altre è la riflessione sulla “boriosa albagia” di cui si è vestita la sinistra;
una sorta di presunzione intellettuale che la rende insopportabile almeno dagli
anni sessanta, peraltro anche ingiustificata: sono innumerevoli coloro che si
sono convinti di aver letto Marx, Horkheimer, Adorno, Marcuse o Lukács grattando
la quarta di copertina, anche se i peggiori sono quelli che avendo fatto questo
sforzo fingono di non ricordare.
Insomma,
il Partito Democratico non è diverso da chi lo ha votato: borghese lampante ma
in fase di negazione se glielo si fa notare, assolutamente non disposto a
rinunciare a nulla, neanche a una porzione minima del suo posticino al sole… ma
sempre pronto ad indignarsi nel solito bar prima di andare in ufficio
bofonchiando tronfio e incazzato - con un morso di brioches in bocca e un
cappuccino caldo sul bancone - perché un numero notevole di “stupidi” hanno
creduto alle promesse di un populista volgare e incapace, una figura morta
politicamente sia a livello internazionale che nazionale, che tiene in vita un fantasma
tramite promesse e immagini facendolo sembrare vivo. Purtroppo non aver votato
Berlusconi non può più farci sentire migliori, superiori o mondi dall’idiozia
generale, non ci giustifica né ci rende più coscienziosi o giusti. In un clima
di demenza dilagante dove la stessa impera non è affatto consolatorio dichiarare
semplicemente di non essere dementi e neanche credere di averlo dimostrato in
un’urna. Quindi questa serie di “giorni dopo” in cui le chiacchiere mormoranti,
le analisi sconcertate, l’indignazione generale e la preoccupazione abitano le
nostre menti come un canovaccio stantio e ci vestono come un buffo e largo
costume da Commedia dell’Arte in un
palcoscenico di banalità, lasciano il tempo che trovano. Purtroppo non abbiamo
perso ai quarti di finale con la
Corea bensì siamo nella merda!, e se veramente ne fossimo
consapevoli non avremmo il tempo di fare la puccia nel cappuccino caldo col
cornetto al bar convinti che sia fondamentale capire chi ha votato Berlusconi,
anche perché la criminalità organizzata i
cornetti se li fa mandare a casa, se sono proprio fortunati nel covo. E mentre
noi ci trasformiamo in “rivoluzionari ai tavolini”, recitiamo per qualche
giorno la parte degli indignati basiti e increduli, c’è già chi è consapevole
che questa recita durerà poco, il tempo di far raffreddare il tutto, il tempo
riappropriarci del nostro morbo più endemico e nefando… la rassegnazione. Quel
sentimento che radicherà in noi la molle convinzione che nulla mai cambierà e
sul quale tutti contano e puntano per continuare a restare in un olimpo di
privilegi in rovina, di decadenza vergognosa di cui questo risultato elettorale
è solo lo specchio, niente di più niente di meno che il puntuale e drammatico
riflesso.
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