Sana regola consiste nel sottovalutare
mai alcun testo… e una rilettura adulta del Robinson Crusoe è sempre consigliabile.
Dafoe per questo rivoluzionario romanzo - con ogni probabilità - si ispirò alle
avventure di un marinaio scozzese, tale Alexander Selkirk, tanto che l’isola di
Mas a Tierra dove approdò lo sfortunato scozzese è stata ribattezzata l’isola di
Robinson. Di naufragi - e sopravvivenze a questi - la letteratura occidentale è
piena; e così come l’Odissea non è la semplice la cronaca di un ritorno ma
anche la mappa di una colonizzazione, il Crusoe non rappresenta semplicemente
la storia di un uomo che – unico superstite di un naufragio sulla tratta degli
schiavi – riesce a sopravvivere e resistere alla natura selvaggia per poi
ritrovarsi dopo venticinque anni, al suo ritorno ricco e agiato grazie ai
guadagni indotti delle sue piantagioni. Se così fosse autore, soggetto e trama sarebbero
incorsi tanto rovinosamente quanto legittimamente in un doveroso oblio. Il libro di Dafoe è qualcosa di più di tutto
questo e forse anche più di quanto la fortuna letteraria giustamente gli ha
riconosciuto. Pensiamo ai co-protagonisti del romanzo: la natura selvaggia, una
bibbia, un’arma carica, un pappagallo e una tribù di cannibali opportunamente sterminata
dal civilissimo Robinson, eccetto un componente “ribattezzato” Venerdì in memoria
del giorno del loro incontro. Venerdì non è un risparmiato da Robinson ma un
eletto. Saggiamente indirizzato dalle Scritture il protagonista della storia ha
preso possesso della natura circostante così come Adamo ha “nominato” le cose
per possederle e con la sua “illuminata” superiorità, si è reso il primo uomo di
uno stantio eden venezuelano nei pressi della foce dell’Orinoco. Da questi
indizi possiamo dedurre che lo sterminio di esseri simili si rendeva necessario
per riproporre un paradiso terrestre altrimenti sovrappopolato. Venerdì è insieme
suddito e servo, animale da compagnia – alla stessa stregua del pappagallo - e un “pressoché umano” a cui elargire briciole
di civiltà e fede, e al quale mostrare e imporre la propria indiscussa
superiorità. Insomma tutti gli ingredienti per generare un’umanità civile e
moderna, divisa in classi sociali e basata sulla ragione, però temporanea –
difatti l’assenza di una donna e la conseguente impossibilità a generare fanno
già intuire che Robinson verrà salvato da una nave inglese e che Dafoe sarà
costretto a scrivere un infelice seguito che pochi conoscono. L’esotico è
felicemente descritto in uno stile innovativo, giornalistico, così come i
tormenti esistenziali del protagonista che medita sulla vanità del mondo, sui
valori essenziali della vita, sulla solitudine ma raramente sulla rassegnazione
nei confronti della propria condizione. L’ausilio della ragione unita alla fede
è tanto potente quanto efficace: Robinson è certo della Salvezza che essa venga
dall’ approdo fortuito di una nave o da Dio, e apparecchia quell’isola per un
ultimo giorno, e poco importa se sarà quello della sua morte o del suo ritorno
in patria. La ragione deve prevalere sulla disperazione, la fede sulla morte e
insieme devono concorrere a innalzare una difesa efficace da tutte le intemperie
e le difficoltà che una natura oramai foriera dall’umano può selvaggiamente
offrire. Adamo-Robinson riprende in mano ancora una volta e “ volontariamente”
il frutto della conoscenza, non può farne a meno se vuole sopravvivere, perché
conosce un solo modo per farlo e cioè… dominare. La ragione e il Genesi si sono
resi necessari non più per una nuova cacciata dal paradiso terrestre ma –
paradossalmente – per la sua riproposizione in chiave illuministica. Robinson
non può allontanarsi dall’Eden ne è impossibilitato, quindi è l’Eden che “deve”
diventare una pallida ricostruzione della civiltà, uno specchio - il più
verosimile possibile - della società da cui il naufrago proviene: “così
squadrando e calcolando ogni cosa con la ragione e giudicandone nel modo più
razionale, ogni uomo può col tempo diventare padrone di ogni arte meccanica” . Un breve passo che avvicina l’autore giornalista
al Discours di Cartesio smascherandolo definitivamente.
Tra le analisi del testo di Dafoe,
da quella di Marx sino a Joyce - tutte più che plausibili -, pochi hanno avuto
in cura di indicare un elemento tanto paradossale quanto inevitabile: la
necessità dell’umano nel sopperire alla propria impotenza nei confronti della
natura potendola solo dominare. Questo atto di forza più che “semplicemente
illuministico” è un gesto ineluttabile per sopravvivere, per resistere in
condizione avverse e per noi “innaturalmente” naturali. La civiltà e tutte le
sue conseguenze quasi come un prodotto della specie, come un formicaio per le
formiche, un habitat necessario che ci portiamo appresso ovunque andiamo per
non soccombere: un carapace endemico, in bulimica e inarrestabile crescita che
può anche rischiare di soffocare chi ne è protetto. Il dominio necessario sulle
cose e sul mondo come unico strumento contro un altrimenti mortale condanna all’impotenza
“nel” mondo. Un’ipotesi quasi claustrofobica e inquietante e per questo forse
rimossa. Certo è che se questa fantasiosa conclusione fosse solo pallidamente
possibile o – uomo non voglia – vera, ci renderebbe la forma di parassiti più
pericolosa del pianeta, e tutti gli sforzi che ideologicamente e culturalmente facciamo
per opporci al dilagare di tutto questo si ridurrebbero addirittura ad un danno
verso la nostra stessa natura, al vezzo di una minoranza già sconfitta perché è sempre e solo il più
forte quello che sopravvive, anche se il suo destino è di restar soffocato da
se stesso.
Nessun commento:
Posta un commento