Tra
i drammi storici di Shakespeare il “Re Giovanni” non ha una posizione di
rilievo, anche se non mancano i migliori ingredienti: l’acme della decadenza
plantageneta, la minaccia, la paura, la ferocia della guerra, la plumbea
presenza di un bastardo, matrimoni combinati, puntuali scomuniche, il
tradimento - e da questo - l’inevitabile scorrere copioso sangue familiare, ritenuti
infine tutti totalmente inutili.
Le
prima avvisaglia di questo straordinario fallimento la leggiamo fin dal primo
atto quando il messo del Re Filippo di Francia ha l’ardire di dire in faccia a
Giovanni e davanti alla sua corte che è una “maestà raccattata”. L’offesa avrà
una risposta debole e il messo sarà libero di tornare “in pace” da un re di
Francia vincitore già solo per coraggiosa impudenza indice di superiori qualità
caratteriali.
Cosa
rende questo testo perfetto e infelice, nonostante tutte le sue impeccabili
caratteristiche, se non l’assoluta debolezza del suo protagonista? Shakespeare doveva rappresentare il Lackland,
il Senza terra: una figura inutile il cui regno fu solo materia informe nata da
un malaugurato caso, utile solo a confermare la massima di Montaigne che ci
ricorda che i frutti della fortuna mai sono uniti al merito.
Quindi
la storia di Giovanni Senzaterra è più affascinante del suo stesso
protagonista, e questo teatralmente non aiuta il canovaccio.
Se
dovessimo andare in cerca di “maestà raccattate” nella nostra contemporaneità potremmo facilmente riempire i palcoscenici di
drammi inefficaci – pronti ad assassinare definitivamente il teatro - per un
tempo pressoché indefinito, e perlopiù senza neanche la consolazione della
buona letteratura. Siamo orfani anche di gloriosi fallimenti.
Il
contemporaneo si presta poco all’arte e l’assenza di qualsivoglia Brecht,
Pasolini o Ionesco segna anche il congedo dell’indagine dell’artista tra le
macerie dell’ovvio, nonostante molti abusino senza pudore della parola
quotidianità. Tutto questo lascia campo
libero a personaggi teatrali sciolti da ogni sceneggiatura, figure reali ed
inquietanti come le sensazioni lasciateci da una notte di incubi e
completamente libere di scorazzare nudi
nel nostro mondo, esibizionisti che disturbano le nostre esistenze non
riconoscendole. A tal proposito, quale metafora migliore dell’Italia? Di “maestà
raccattate” potremmo tranquillamente stilare un elenco dettagliato ed
esauriente, tanto preciso e meticoloso quanto spaventevole. Avremmo tra le mani
una sorta di “censimento ridicolo degli orrori inutili” che potrebbe ripopolare
senza difficoltà tutto l’Inferno di Bosch, nel malaugurato caso in cui sfollasse,
e non noteremmo la benché minima differenza nella sostituzione. Abbiamo tra le mani tanta di quella materia “ridicola”
da restarne senza fiato, della quale siamo talmente sazi da non notarne il
gusto e le opportunità. Siamo “pieni” per riconoscerne la prelibatezza e,
peggio ancora, per coglierne il pericolo per le nostre capacità di giudizio –
arterie oramai totalmente compromesse per esser salavate. Nella casa della
follia prima o poi si diventa folli, se non altro per consuetudine. Vi entriamo
e ne restiamo sconvolti: ma col tempo, con l’abitudine, anche i più assennati
saranno disposti a mangiare in piatti immaginari, a convincersi che il soffitto
sia il pavimento, che le condanne passino per promesse e la follia senno… e
tutto questo, tutto questo senza neanche la bellezza della Poesia.
Nessun commento:
Posta un commento