Gli
allarmismi sono come le sveglie mattutine dopo una bella sbornia notturna:
fanno saltare dal letto e mettono ansia per qualcosa che ancora non è avvenuta.
E tutto ciò in fondo, detto in soldoni, coincide con la stessa definizione del famoso “attacco
d’ansia immotivato” che tanto funesta il vivere moderno. I nostri nervi - con
la partecipazione di quell’istinto di sopravvivenza atavico ma dormiente, e
pressoché inutilizzato, che ci ricorda che siamo animali e, in quanto tali,
minacciati dall’esterno da cause imprevedibili - iniziano a vibrare e a
tendersi anche se non è accaduto nulla. Il petto si stringe, si ha la
sensazione di non respirare – ma i sintomi variano da soggetto a soggetto -, nonché
la lancinante, quanto ingiustificata sensazione che qualcosa di terribile ed inevitabile
sta per travolgerci e poco o nulla possiamo fare. E’ il quando a terrorizzarci perché
può realizzarsi ora, tra tre giorni o sessant’anni…, l’imminenza esclude il
lasso temporale, il pericolo “è sempre”. La fulminea, drammatica consapevolezza
della precarietà dell’esistenza, il rivelarsi istantaneo della nostra
mortalità. Angst direbbero i tedeschi,
parola che trovo preferibile al termine italiano “angoscia”, in quanto offre
nella sua pronuncia tronca ma gutturale proprio quel senso di “sospeso in gola”,
indigeribile ed inevitabile. Noi viviamo in un periodo storico “allarmante ed
allarmato”, La società liquida colta da Baumann non può essere compresa nella
sua interezza senza le città panico di Virilio. Allarmismi da “duemila e non
più mille” del pensiero comune, la contemporaneità delle notizie e delle
informazioni catastrofiche che ci vengono letteralmente “sparate alle tempie”
ci fa sentire quel “sospeso in gola” che accompagna e precede il panico. Il
periodo tragico che attraversiamo con la pretesa di volerlo rendere già storia.
E’ un po’ come se vi fosse una sorta di “sdoppiamento della personalità sociale”
mai come in questo momento mitragliata dall’informazione: da un lato siamo “immersi”
negli accadimenti, coinvolti perché coevi di ciò che le notizie offrono, ma
dall’altro “spettatori”, osservatori esterni, quindi capaci di giudizio su ciò
che chiamerei, forzando la lingua “l’accadente” … la contemporaneità tra l’evento
e il giudizio sullo stesso paradossalmente è angosciante, è come se fossimo spinti a
esprimerci su ciò che ancora deve del tutto consumarsi ma sul quale siamo “più
o meno” informati. Un barbaro assassinio a pochi passi da casa, una catastrofe
naturale o una guerra dall’altra parte del mondo, tutto ci viene iniettato in
contemporanea, “real time”, consegnando alle nostre capacità di giudizio un’ impellenza ad esprimersi. Siamo noi
stessi, sdoppiati in un simultaneo processo di presunto protagonismo ed
osservazione, ad essere incalzati dall’accadere, bruciando il tempo della
riflessione. Crediamo e abbiamo la sensazione che le crepe della storia
diventino voragini in un istante ed è il tempo stesso ad esserne vittima. Il
tempo brucia come paglia, ci incalza e tiranneggia perché sentiamo in ogni
istante possa concludersi; sia soggettivamente che collettivamente. Il tempo
dell’escatologia perenne degli animi. Ci siamo messi in pari, forse
inconsapevolmente – e poco conta se laicamente – con la visione cristiana che
da duemila anni ci dice che siamo alla fine dei tempi. Non conta se il tempo ha
sempre la stessa scansione, unità di misura o armonia… è la nostra sensazione
che ce lo fa sentire soffocato e agonizzante tra l’apocalittico e il nulla.
Se
per la teoria della relatività il tempo può curvarsi, per la visione dell’informazione
in tempo reale siamo noi a curvarci incalzati da una sensazione della
temporalità di cui patiamo il suo consumarsi ancor prima del suo distendersi
nell’attraversarlo. Siamo al tempo stesso inquisiti e giuria nel tribunale
degli eventi, spesso ci avventuriamo – sempre ansiosi – in profezie a breve termine, e come ad un quiz a premi ci sentiamo soddisfatti
quando nel giro di giorni o mesi la nostra ipotetica lungimiranza ha un
riscontro. Mai pensiamo o possiamo immaginare qualcosa di più inquietante che sembra prospettarsi; e cioè che questa soddisfazione sia analgesica,
antidolorifica, ci riappacifichi per qualche istante, rendendoci apparentemente partecipi, padroni temporanei del tempo che subiamo. La falsa sensazione - perché no…
forse mutuata e concessa come materiale di risulta dal gigante dai piedi d’argilla
che vomita tutto in “tempo reale” - di padroneggiare ciò che “ansiosamente” ci
tirannizza. Sembra quasi, “quando ne azzecchiamo una”, di saper interpretare la
storia prima che essa stessa si realizzi. Una sorta di concessione “attivista”
che ci illude di avere un ruolo “reale” su ciò che accade “comunque”.
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