Sono un accidioso e questo mi nega spesso dei semplici piaceri, come appunto il cinema – anche se devo ammettere che il caso mi concede inaspettati colpi di fortuna.
Moonrise
Kingdom è un’americanata necessaria e dai risultati tanto felici quanto
delicati. Una commedia ben costruita, dove nulla è lasciato al caso, richiede
un impegno notevole anche perché il soggetto è in apparenza estremamente
banale. Due ragazzini in piena pubertà nel 1965 nell’alveo rassicurante di un’isola
del New England realizzano una fuga d’amore meditata per via epistolare. L’anno
è tutt’altro che un caso: nel 1965 ufficialmente finiscono gli anni 50’ – cosa che nei personaggi e
nell’ambientazione del film è volutamente ignorata: nascono band come i Pink
Floyd e i Beatles, muore Le Corbusier,
dopo la crisi del Tonkino gli Stati Uniti mandano le prime truppe in
Vietnam, sarà ucciso Malcom X, viene spedito nello spazio il primo satellite di
comunicazioni e un’altra sonda manda le prime foto da Marte. Le citazioni
figurative, musicali e letterarie sono numerosissime ma ben distribuite e mai
lasciate al caso. La ragazzina, algida e severa, e in apparenza anaffettiva,
abita nella Casa di bambola di Ibsen immaginata in un quadro di Hopper e guarda
il mondo con un binocolo – e con silenziosa indifferenza osserva anche l’adulterio
che la madre (interpretata da un’ottima Frances McDormand) consuma con il capo della polizia dell’isola (un inconsueto
ma felice Bruce Willis).
La recitazione è formale, assolutamente inespressiva –
raramente i personaggi si guardano negli occhi -, i dialoghi lenti ed
essenziali si sviluppano ironizzando sul manierismo hollywoodiano dell’epoca. Tutto
è recita: l’ipocrisia, la formalità, l’assoluta assenza di spontaneità non vengono
mai volutamente tradite nel distendersi della trama, come accade in ogni
contesto di maniera. Tutto accade come se l’indiscreto Sputnik stesse
osservando dall’alto e per questo ogni vero americano è chiamato a recitare la parte
del “perfetto americano”!
All’interno
di questo clima alla Grant Wood la borghesia statunitense si culla e fa la sua
parte in modo calcolato, come ad esempio quella del marito tradito e
consapevole – lo straordinario Bill Murray – che vive ottundendo ogni emozione,
riducendo al minimo la sua presenza se non per brevi tratti in cui bipolarmente
mostra tutta la sua rabbia repressa; critica delicata ed efficace all’immagine
di perfetta famiglia americana sponsorizzata in bianco e nero dalle pubblicità
di detersivi dell’epoca.
Il
piccolo Romeo è invece uno scout orfano tutt’altro che popolare, con un’indole
da Huckleberry Finn ma con degli occhialoni da precoce colletto bianco: indossa
quasi sempre un cappello di castoro alla Davy Crockett e fuma una piccola pipa
di grano. La fuga è molto sobria, lui porta con sé tutto il necessario per il
campeggio, mentre lei in un cesto da picnic tiene il suo gatto, il binocolo,
dei libri di avventure e di fantascienza al femminile, un mangiadischi "preso in
prestito" dal fratello minore e un solo 45 giri “Le Temps de l’Amour di Françoise
Hardy” che accompagnerà i due fuggitivi nei primi approcci amorosi su una
piccola spiaggia asetticamente denominata “Insenatura 2,25 miglia ” che loro ribattezzeranno
Regno della luna al tramonto (Moonrise Kingdom appunto, frase che mi è stata tradotta).
In questo abbozzo provinciale dell’Isola di White il giovane Sam ritrae la sua Suzy
e le fa degli orecchini con due ami e due insetti, e nel loro concetto di avventura
e di poesia senza rime resuscitano inconsapevolmente Walt Whitman strizzando già
l’occhio a Keruac. La fuga viene soffocata e - come da copione - i due vengono
condannati a non vedersi. Ma questa ribellione sobria e inaspettata frattura l’equilibrio
formale e stantio di tutti i personaggi, compreso quello del caposcout - interpretato
da Edward Norton - sino a quel momento irrimediabilmente
condannato ad una ottusa, ridicola e formale disciplina paramilitare nel campo Ivanhoe.
Il piccolo protagonista si vede rifiutato
anche dalla sua famiglia affidataria e si aprono le porte dell’orfanotrofio annunciate
da una fredda e insensibile assistente sociale (Tilda Swinton), che sembra
appena uscita da Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Questo personaggio è volutamente
senza nome … si chiama solo “Assistenza Sociale”, così come le varie streghe
del Mago do Oz usavano i punti cardinali per distinguersi.
Ma
i due amanti, questa volta aiutati da tutti gli scout del campo, scappano di
nuovo, e così Suzy – come la
Wendy di Peter Pan – ha anche il tempo di leggere loro
davanti ad un falò, le pagine dei suoi libri. Si annoverano a questo punto velocemente: il
ludico matrimonio dei due, un fumettistico fulmine che colpisce il protagonista
nell’eroico e grottesco tentativo di combattere contro i suoi inseguitori, e la
prospettiva di vita da latitanti su un peschereccio che non raggiungeranno mai.
Nel
frattempo interviene una tempesta sull’isola e i due fuggitivi si ritrovano
mano nella mano sul campanile della chiesa in procinto di saltare. Il finale –
che ometto - è però volutamente in perfetto stile lieto fine, anche perché la
commedia americana – anche se d’autore – difficilmente concepisce il
sincretismo narrativo tra commedia e dramma. La pellicola – anche se non so se così ancora
la si possa chiamare – è deliziosa, senza eccessive pretese e per questo le
esaudisce tutte. Uno spaccato ironico ma non dissacrante su uno dei periodi più
complessi della storia americana, quel periodo che divide la generazione
cresciuta nell’illusione dell’ottimismo propagandistico degli anni cinquanta da quella della contestazione. Originale è la
colonna sonora che vede avvicendarsi in modo puntuale Bernstein, Antonhy, Desplat,
la Hardy , Rubner,
Williams e Britten. Originale anche il filo rosso che unisce l’incipit e la
fine del film: all’inzio un disco istruisce l’ascoltatore sulla composizione e
la struttura della musica sinfonica, nei titoli di coda è la voce di un bambino
che elenca l’ingresso degli strumenti nella composizione, quasi a rivendicare
un’autonomia di pensiero e azione
rispetto ai dettami imposti dall’alto.
Un
particolare plauso va al piccolo attore bendato che recita la parte di “occhio
pigro”…. Che in tutto il film ha una sola battuta: “stanno tornando indietro”.
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