La tentazione alla
congettura spesso sa di asfalto bagnato e di coriandoli infangati sulla strade del mercoledì delle ceneri. Lasciamo che la nostra sensibilità affondi
tenue nel risposo dei pensieri con la
presunzione che sia una meta, un apice toccato con la fatica del pensiero. E il
sangue si mischia nei nostri occhi sino a diventare il cielo rosso di un tramonto
che non sarà nostro. Amiamo questo delirio, questo principato tanto delicato
quanto falso, come una conquista perenne, un’orma a fuoco che ci inganna con la
sensazione del “picco di perfezione”. Ciò che ci inganna e proprio ciò che ci
viene in aiuto, il presumere, questo certo sentire che il perfetto sia stato
toccato, sfiorato è in realtà traccia e misura incommensurabile della nostra
distanza. Megalomanie istantanee con le quali stabiliamo falsi precedenti,
maturiamo ostensive e tremolanti consapevolezze di un inganno al quale amiamo
consacrarci ogni volta come sacerdoti vuoti di fedi perennemente nuove: eretici
del prima, novizi dell’ora. I vicoli diventano vie sterminate, le sensazioni
profezie, il cemento marmo. Noi cadiamo dove i nostri padri ci hanno tracciato
strade, sulla sottigliezza. Siamo punte acuminate di zirconi che si graffiano
frantumandosi certe di esser diamanti. Possiamo dire di non esser perfettamente
liberi perché abbiamo la libertà di poter sottilizzare, possiamo dire di esser
sensibili e piangere martiri mai conosciuti perché loro avevano il viso
duro, perché il marmo fa meno senso della carne e dei rivoli di sangue che ci
insozzano le scarpe. Le loro battaglie sono lontane il giusto: tanto da non
invadere il quotidiano, ma, per fortuna, non abbastanza per una onoraria sacramentata
occasionale. Siamo amanti distratti, un orgasmo di contrizione di tanto in
tanto e usciamo mondi e perfezionati dalla noia come perpetue sotto il sole che
distribuiscono santini all’uscita della messa. Le facce beatificate da un
sermone di vita improvviso, ma fatto come Dio comanda, fino al suo sciogliersi
nella memoria. La congettura è un’adultera col viso d’angelo e le cosce di
cemento, un falso dono, il periplo infinito della lontananza, è senza sangue
perché non si sente scorrer nulla se non la linfa sterile dell’appagamento
estemporaneo. Non ha brividi né tremori,
non ha occhi con cui esprimere piacere o terrori. E’ un demone meridiano che ci
coglie tra il sonno e la veglia e che ci sfugge con una promessa perenne di
verità tra le sue labbra chiuse. L’ostacolo si veste da illuminazione, la
distanza da ispirazione e la sua maschera è il nostro volto: l’inganno che celebra
e che lusinga non ha bisogno di stare alle nostre spalle, ci sta davanti e ci
guarda negli occhi. Ci gira intorno come un servo compiacente e sussurra le
nostre gesta per cullarci nel sonno. Ha le mani tozze e il verso lieto, non ci
tocca ma canta, è un satiro multiforme, un aedo mediocre dal tocco ruvido ma
supplica come Elena ai piedi del cavallo di legno. Conosce le voci di ciò che
amiamo e le imita alla perfezione, ci arma delle nostre stesse illusioni per
derubarci al culmine del nostro compiacimento lasciandoci tra le mani la sabbia
di una clessidra frantumata.
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