In Verità

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martedì 8 gennaio 2013

TUTTI ROBINSON E NESSUN VENERDI'



Sana regola consiste nel sottovalutare mai alcun testo… e una rilettura adulta del Robinson Crusoe è sempre consigliabile. Dafoe per questo rivoluzionario romanzo - con ogni probabilità - si ispirò alle avventure di un marinaio scozzese, tale Alexander Selkirk, tanto che l’isola di Mas a Tierra dove approdò lo sfortunato scozzese è stata ribattezzata l’isola di Robinson. Di naufragi - e sopravvivenze a questi - la letteratura occidentale è piena; e così come l’Odissea non è la semplice la cronaca di un ritorno ma anche la mappa di una colonizzazione, il Crusoe non rappresenta semplicemente la storia di un uomo che – unico superstite di un naufragio sulla tratta degli schiavi – riesce a sopravvivere e resistere alla natura selvaggia per poi ritrovarsi dopo venticinque anni, al suo ritorno ricco e agiato grazie ai guadagni indotti delle sue piantagioni. Se così fosse autore, soggetto e trama sarebbero incorsi tanto rovinosamente quanto legittimamente in un doveroso oblio.  Il libro di Dafoe è qualcosa di più di tutto questo e forse anche più di quanto la fortuna letteraria giustamente gli ha riconosciuto. Pensiamo ai co-protagonisti del romanzo: la natura selvaggia, una bibbia, un’arma carica, un pappagallo e una tribù di cannibali opportunamente sterminata dal civilissimo Robinson, eccetto un componente “ribattezzato” Venerdì in memoria del giorno del loro incontro. Venerdì non è un risparmiato da Robinson ma un eletto. Saggiamente indirizzato dalle Scritture il protagonista della storia ha preso possesso della natura circostante così come Adamo ha “nominato” le cose per possederle e con la sua “illuminata” superiorità, si è reso il primo uomo di uno stantio eden venezuelano nei pressi della foce dell’Orinoco. Da questi indizi possiamo dedurre che lo sterminio di esseri simili si rendeva necessario per riproporre un paradiso terrestre altrimenti sovrappopolato. Venerdì è insieme suddito e servo, animale da compagnia – alla stessa stregua del pappagallo - e  un “pressoché umano” a cui elargire briciole di civiltà e fede, e al quale mostrare e imporre la propria indiscussa superiorità. Insomma tutti gli ingredienti per generare un’umanità civile e moderna, divisa in classi sociali e basata sulla ragione, però temporanea – difatti l’assenza di una donna e la conseguente impossibilità a generare fanno già intuire che Robinson verrà salvato da una nave inglese e che Dafoe sarà costretto a scrivere un infelice seguito che pochi conoscono. L’esotico è felicemente descritto in uno stile innovativo, giornalistico, così come i tormenti esistenziali del protagonista che medita sulla vanità del mondo, sui valori essenziali della vita, sulla solitudine ma raramente sulla rassegnazione nei confronti della propria condizione. L’ausilio della ragione unita alla fede è tanto potente quanto efficace: Robinson è certo della Salvezza che essa venga dall’ approdo fortuito di una nave o da Dio, e apparecchia quell’isola per un ultimo giorno, e poco importa se sarà quello della sua morte o del suo ritorno in patria. La ragione deve prevalere sulla disperazione, la fede sulla morte e insieme devono concorrere a innalzare una difesa efficace da tutte le intemperie e le difficoltà che una natura oramai foriera dall’umano può selvaggiamente offrire. Adamo-Robinson riprende in mano ancora una volta e “ volontariamente” il frutto della conoscenza, non può farne a meno se vuole sopravvivere, perché conosce un solo modo per farlo e cioè… dominare. La ragione e il Genesi si sono resi necessari non più per una nuova cacciata dal paradiso terrestre ma – paradossalmente – per la sua riproposizione in chiave illuministica. Robinson non può allontanarsi dall’Eden ne è impossibilitato, quindi è l’Eden che “deve” diventare una pallida ricostruzione della civiltà, uno specchio - il più verosimile possibile - della società da cui il naufrago proviene: “così squadrando e calcolando ogni cosa con la ragione e giudicandone nel modo più razionale, ogni uomo può col tempo diventare padrone di ogni arte meccanica” . Un breve passo che avvicina l’autore giornalista al  Discours di Cartesio smascherandolo definitivamente.
Tra le analisi del testo di Dafoe, da quella di Marx sino a Joyce - tutte più che plausibili -, pochi hanno avuto in cura di indicare un elemento tanto paradossale quanto inevitabile: la necessità dell’umano nel sopperire alla propria impotenza nei confronti della natura potendola solo dominare. Questo atto di forza più che “semplicemente illuministico” è un gesto ineluttabile per sopravvivere, per resistere in condizione avverse e per noi “innaturalmente” naturali. La civiltà e tutte le sue conseguenze quasi come un prodotto della specie, come un formicaio per le formiche, un habitat necessario che ci portiamo appresso ovunque andiamo per non soccombere: un carapace endemico, in bulimica e inarrestabile crescita che può anche rischiare di soffocare chi ne è protetto. Il dominio necessario sulle cose e sul mondo come unico strumento contro un altrimenti mortale condanna all’impotenza “nel” mondo. Un’ipotesi quasi claustrofobica e inquietante e per questo forse rimossa. Certo è che se questa fantasiosa conclusione fosse solo pallidamente possibile o – uomo non voglia – vera, ci renderebbe la forma di parassiti più pericolosa del pianeta, e tutti gli sforzi che ideologicamente e culturalmente facciamo per opporci al dilagare di tutto questo si ridurrebbero addirittura ad un danno verso la nostra stessa natura, al vezzo di una minoranza  già sconfitta perché è sempre e solo il più forte quello che sopravvive, anche se il suo destino è di restar soffocato da se stesso.  

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