In Verità

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mercoledì 27 febbraio 2013

LETTERA APERTA A BEPPE GRILLO




Innanzitutto per onestà devo dichiarare che io non l’ho votata! Anche se devo ammettere che per la prima volta nell’urna sono stato attraversato da questa tentazione… ma la mia formazione e le mie convinzioni hanno posto forti delle domande alla mia coscienza politica: i miei maestri, da Gramsci a Pasolini, cosa avrebbero fatto al mio posto?  Guardando quelle schede ridicole, caotiche e fumettistiche sono certo che Longanesi, Flaiano e Marchesi avrebbero scritto qualcosa di dissacrante ed epocale, qualcosa di tagliente e preciso come un fendente al cuore del ridicolo di questo paese… e alla luce di tutto questo io non ce l’ho fatta! Di certo non mi scuso per non essermi lasciato trasportare dal desiderio di protesta e di rifiuto. Forse alla fine mi sono scoperto - e questo è preoccupante per me – un moderato della peggior specie, di quella specie che preferisce il male minore all’onda del dissenso, allo “tsunami” delle grida in piazza, anche se giuste e motivate, anche se sono la voce legittima di un parossismo esasperante e disgustoso, figlio storpio e indecente di una classe politica incapace vorace e ridicola, pronto a oliare i suoi ingranaggi arrugginiti macinando qualsiasi forma di decenza pur di sopravvivere per continuare a divorare questo paese. Insomma non solo io non l’ho votata ma non credo lo farei comunque.
Alla fin della fiera bisogna, però, prendere atto che la forza politica da lei fondata non solo ora è in Parlamento ma è il primo movimento di rappresentanza di questa nazione; ora – dunque - questa voce è stata investita di un’enorme responsabilità civica e politica che non può più solo cristallizzarsi nella protesta e nel dissenso che l’hanno generata . Ora le idee possono diventare materia, il dissenso può tramutarsi in proposta, il desiderio di cambiamento in programma.  Ciò che è nato come dirompente e libero da ogni accordo pre-elettorale, da qualsivoglia macchinazione di palazzo o connivenza massonico-criminale ha potere, sperando che abbia ben chiaro che questo potere per una volta può essere abitato dalla severa coscienza che deve esser preceduto e guidato dal senso di responsabilità nei confronti del paese. Insomma, potete essere una speranza o una tragedia in germe a voi la scelta. Se il tutto si tramutasse in una nuova via– nei confronti della quale la vecchia e malata politica é in piena fase di rimozione -, essa sarebbe tutta da percorrere e da costruire “in itinere”, un costruirsi che può trovare ostacoli notevoli, sia dall’esterno che in sé stesso. Ora, credo e spero, che lo scegliere e il comprendere, l’agire e il costruire si antepongano alla protesta e alla condanna, ora una ragione coscienziosa e fattiva, immagino e mi auspico, ritengo che sia preferibile all’istinto: anche se quest’ultimo ha saputo dar voce al disagio generale ed ha gridato pubblicamente - dopo troppo tempo - che il “re è nudo”. Conosce bene i meccanismi della stampa nazionale e sa bene che quella internazionale considera molto più preoccupante il persistere del berlusconismo in questo paese piuttosto che l’affermazione del Movimento Cinque Stelle, fenomeno che ha stupito molto più in casa che all’estero – ma anche questo viene facilmente compreso se facciamo appello al patologico meccanismo di rimozione succitato che infetta l’opinione pubblica di questo paese; preferiamo far finta di niente, edulcorare e dissacrare e in ultima istanza ignorare piuttosto che “considerare lucidamente e analizzare”.
Quindi ora si pone una scelta, di certo difficile ed impegnativa: lasciare tutto nel caos, visti i risultati elettorali, o lavorare con i mezzi a disposizione per “ricostruire questo paese”.
Alla fine io vorrei chiederle: cosa vuole essere adesso il Movimento cinque Stelle? Cosa può e vuole fare? Come può e vuole incidere nella vita sociale, politica ed economica di una nazione distrutta da una politica bassa e volgare che si è adeguata al berlusconismo, dove anche ciò che vi si è opposto si è reso povera e mediocre nemesi? Come ha intenzione di agire e muoversi rispetto ad un’economia disastrata, che ha violentato e cancellato ogni forma di previdenza, di assistenza  - sia sociale che sanitaria -, che ha demolito la scuola pubblica mattone per mattone e che dagli anni 80’ ha fatto scempio di tutti i valori e i dettami del Diritto Costituzionale?
Al di là di ogni  denuncia e protesta credo ci troviamo dinnanzi a due sole alternative: o quella di una “ricostruzione” seppur faticosa di uno stato di diritto, o davanti a una catastrofe sociale paragonabile solo a quella che portò al fascismo. Come vede non siamo messi bene, ma non amo ripetere ciò di cui lei è già a conoscenza, altresì non mi stancherò mai di ricordare a me stesso che saranno le scelte e il cammino che verranno intrapresi ora a delineare la forma delle prospettive future. La sua responsabilità storica e sociale non è da poco, spero ne sia consapevole. Conosce altrettanto bene chi, pur di sopravvivere e resistere, sarebbe disposto a infliggere il colpo di grazia a questo paese senza pensarci due volte, cosa che risulterebbe estremamente facile visti i risultati delle urne. Ora sta alle forze coscienziose, e quanto meno decenti, presenti in parlamento decidere sul da farsi… decidere se costruire o demolire, avere buona volontà o rabbia, responsabilità o istinto.
Immagino che i Distinti Saluti si possano simpaticamente omettere senza incorrere nel rischio che qualcuno si offenda.
   

martedì 26 febbraio 2013

IL CAOS E LA RASSEGNAZIONE


Ad un giorno dai risultati delle elezioni, in un’intervista rilasciata ad Alessandro Ferrucci del Fatto quotidiano, il filosofo Massimo Cacciari – una dei pensatori più influenti del paese, anche perché Agamben parla meno – definisce l’entourage di Bersani un insieme di “teste di cazzo”; l’affermazione – per quanto condivisibile - viene però messa in crisi dallo stesso professore quando alla fine dichiara che “non bisogna perdere la testa”.  Addentrarsi nel territorio del principio di non contraddizione sarebbe tanto impervio quanto poco utile, quindi preferirei partire dalle riflessioni di Cacciari per avere, almeno personalmente, un quadro decente. Il PD non sa vincere le elezioni e la cosa non è una novità; lo stesso filosofo è nel partito da un bel po’ di tempo e conosce perfettamente questa dinamica, quindi il suo rabbioso stupore somiglia più che altro all’affanno dell’Achille zenoniano che cerca di recuperare i passi in più di vantaggio della tartaruga… un annaspare poco produttivo almeno sulla base della logica. Persino la sua sfuriata dunque non risolve nulla anche perché, nonostante l’autorevolezza, viene dall’interno del partito, e meglio di me Cacciari sa che anche fuori dalle mura di Creta Epimenide resta cretese.
Nel mezzo di questi due estremi – l’incazzatura e l’invito alla calma – ci sono una serie di accuse dirette alla dirigenza del PD, ovviamente tutte vere: l’assoluta distanza dall’elettorato (ammesso che così lo si possa definire), le lotte interne, l’incapacità di realizzare un cambiamento reale, anche se sarebbe più opportuno definirla mancanza di coraggio - mantenere i numeri sicuri senza azzardarsi a cercare nuovo consenso con scelte forti e dichiarate è tipico di un pensiero conservatore e non certo di quello progressista. Più notevole delle altre è la riflessione sulla “boriosa albagia” di cui si è vestita la sinistra; una sorta di presunzione intellettuale che la rende insopportabile almeno dagli anni sessanta, peraltro anche ingiustificata: sono innumerevoli coloro che si sono convinti di aver letto Marx, Horkheimer, Adorno, Marcuse o Lukács grattando la quarta di copertina, anche se i peggiori sono quelli che avendo fatto questo sforzo fingono di non ricordare.
Insomma, il Partito Democratico non è diverso da chi lo ha votato: borghese lampante ma in fase di negazione se glielo si fa notare, assolutamente non disposto a rinunciare a nulla, neanche a una porzione minima del suo posticino al sole… ma sempre pronto ad indignarsi nel solito bar prima di andare in ufficio bofonchiando tronfio e incazzato - con un morso di brioches in bocca e un cappuccino caldo sul bancone - perché un numero notevole di “stupidi” hanno creduto alle promesse di un populista volgare e incapace, una figura morta politicamente sia a livello internazionale che nazionale, che tiene in vita un fantasma tramite promesse e immagini facendolo sembrare vivo. Purtroppo non aver votato Berlusconi non può più farci sentire migliori, superiori o mondi dall’idiozia generale, non ci giustifica né ci rende più coscienziosi o giusti. In un clima di demenza dilagante dove la stessa impera non è affatto consolatorio dichiarare semplicemente di non essere dementi e neanche credere di averlo dimostrato in un’urna. Quindi questa serie di “giorni dopo” in cui le chiacchiere mormoranti, le analisi sconcertate, l’indignazione generale e la preoccupazione abitano le nostre menti come un canovaccio stantio e ci vestono come un buffo e largo costume da Commedia dell’Arte  in un palcoscenico di banalità, lasciano il tempo che trovano. Purtroppo non abbiamo perso ai quarti di finale con la Corea bensì siamo nella merda!, e se veramente ne fossimo consapevoli non avremmo il tempo di fare la puccia nel cappuccino caldo col cornetto al bar convinti che sia fondamentale capire chi ha votato Berlusconi, anche perché la criminalità organizzata  i cornetti se li fa mandare a casa, se sono proprio fortunati nel covo. E mentre noi ci trasformiamo in “rivoluzionari ai tavolini”, recitiamo per qualche giorno la parte degli indignati basiti e increduli, c’è già chi è consapevole che questa recita durerà poco, il tempo di far raffreddare il tutto, il tempo riappropriarci del nostro morbo più endemico e nefando… la rassegnazione. Quel sentimento che radicherà in noi la molle convinzione che nulla mai cambierà e sul quale tutti contano e puntano per continuare a restare in un olimpo di privilegi in rovina, di decadenza vergognosa di cui questo risultato elettorale è solo lo specchio, niente di più niente di meno che il puntuale e drammatico riflesso.

sabato 23 febbraio 2013

BUON VOTO




Votare certo ma chi? Non è l’incertezza il male né l’alto grado di massificazione delle compagini più accreditate, ma è – al contrario – l’assoluta certezza di un futuro in emergenza a renderci ansiosi. Uno stato d’animo prima che politico, collettivo e sociale. In una condizione di continua emergenza e incertezza ogni scelta non è un possibile errore ma un rassegnato fallimento. C’è da dire che siamo stati abilmente sollevati dalla preoccupazione di “chi votare” da una legge elettorale inquietante – nata male per rendere bipolare il sistema e mantenuta in continuo coma vigile da una classe politica frantumata in mille pezzi, un gruppo minoritario di figure che si appropria illegalmente del diritto di decidere “chi” ci dovrebbe rappresentare. In questo modo il nostro diritto al voto, la nostra primaria forma di espressione democratica diventa uno strumento, una delega parziale, un esercizio monco che ci appartiene in misura minima: giusto quell’assaggio di partecipazione che salva le apparenze e che segna il confine tra la conquista del suffragio e il ritorno all’oligarchia. Siamo in un clima di ansiosa parvenza democratica, provocato da una continua e lacerante forma di propaganda di terrorismo economico, alimentati di continuo da timori pessimistici sul futuro in batterie virtuali con poca luce. Proprio adesso, e non è un caso, si applica una forma di conservatorismo restaurativo delle istituzioni che permette a queste ultime di ripiegare su sé stesse per sopravvivere. Non un nome, né tanto meno un’idea, figuriamoci un programma ma solo un simbolo, un colore. Il nostro compito di elettori è stato facilitato al massimo… riempiremo caselle.